QUALE APPROCCIO?





Psicoterapia: quale approccio?


Fin dai primi anni di Università, ho scelto di orientare la mia formazione in ambito psicodinamico.

Mi sono immerso così in varie letture dei testi classici di psicologia psicodinamica, mentre sul versante esperienziale e professionale, ho intrapreso una formazione di tipo psicoanalitico, ad indirizzo junghiano, presso la Scuola Psicoanalitica Maya Liebl di Pisa, che mi sembrava molto stimolante, per la varietà di corsi e seminari che organizzava.

Maya Liebl, allieva di Ernest Bernhardt, di formazione junghiana, aveva incentrato il suo lavoro sull’attenzione alle variazioni degli stati interni, rilevate grazie all’allenamento all’ascolto delle proprie sensazioni corporee, cenestesiche, vestibolari, propriocettive etc., sulla loro espressione a livello psichico, vale a dire sulla natura dei processi proiettivi.

Questo mi ha portato a lavorare molto sul rapporto mente-corpo e corpo-mente, sull’importanza della percezione dei propri vissuti e dei propri stati interiori.

Con il tempo ciò mi ha permesso di sviluppare un mio personale approccio al paziente ed alla sua sofferenza basato più sul comprendere che sullo spiegare.

Un approccio fenomenologico-dinamico.

L’ approccio con il paziente vuole dire per me, al di là degli strumenti conoscitivi teorici, instaurare, in primo luogo, un rapporto umano ed empatico e, in secondo luogo, conoscere e comprendere i processi psichici che si celano dietro i comportamenti di quella persona.

Da un lato per me è quindi divenuto sempre più importantel comprendere quello che la persona che ho difronte sta vivendo, in quel preciso momento, senza che sia io ad “etichettare” quei vissuti, sulla base dei miei sistemi razionali, strutturati a priori.


Dall’altro lato, mi sono sempre chiesto, nella mia attività professionale, cosa aiuta realmente una persona a passare da un modo di affrontare la realtà che genera malessere, ad un altro che assicura un senso di tranquillità e saldezza. Quali processi interiori permettono questo cambiamento?


Mi sono accorto che il semplice ragionare razionale e il semplice etichettare la causa di un sintomo, in base a questo o quel paradigma teorico, solo raramente bastano a produrre un reale cambiamento e sopratutto non corrispondono a ciò che un paziente desidera.


Un paziente desidera, in primo luogo, che il terapeuta si interessi a lui e non ad etichettare i suoi sintomi.

Inoltre, dal mio punto di vista, la psicoterapia non può proprio essere ridotta ad una tecnica o ad un sistema di spiegazioni.



Le teorie servono, hanno avuto e hanno un loro valore euristico, ma in realtà nella vita ci si trova difronte a qualcosa di molto più ampio, che nessuna spiegazione razionale può abbracciare. Questo qualcosa è in realtà un qualcuno e si chiama un Essere Umano.


La mia ricerca personale, che privilegia l’aspetto esperienziale su quello razionale e teorico, mi ha condotto a sviluppare un approccio al lavoro psicoterapeutico che oggi definirei di tipo fenomenologico-dinamico


Un essere umano, una persona, che ci parla, nel qui e ora, non può essere ridotto a definizioni e/o categorie di tipo cognitivo, relazionale, affettivo, emotivo, ma è sempre un tutt’uno, un’interezza.


E’ solo per via di un processo di astrazione, che si separano i vari componenti del fenomeno, per studiarli e osservarli, ma è come fare una vivisezione, si prendono alcune parti e se ne lasciano altre.

Io cerco invece di osservare il fenomeno, il modo in cui l’essere umano si manifesta nel suo insieme, per come esso si dà e in questo fenomeno, non solo c’è la persona, diciamo il paziente, ma ci sono anche io, che sono parte di questo tutto. Non mi pongo al di fuori, come colui che osserva e valuta e dà dei giudizi o delle interpretazioni, ma sono parte integrante di questo fenomeno.


Ho scoperto e verifico continuamente che, a mano a mano che la persona riesce ad esprimere pienamente il proprio vissuto e riesce a definirlo, a dargli un nome con il suo proprio linguaggio, un nome che corrisponde al suo vissuto, qualcosa accade, qualcosa cambia.


Ho cominciato così a dare sempre più importanza al momento del raccontare della persona, non un raccontare razionale, ma impregnato di affettività, di vissuto, di intensità. Nel racconto che io aiuto a fare, viene rivissuta la carica emotiva e si giunge a dare un nome preciso, non interpretativo o razionale, al vissuto.


Ho osservato che quando una persona riesce a nominare esattamente quella cosa che la fa soffrire, allora è come se a quell’evento o a quella sofferenza venisse data una collocazione nella propria vita, nell’insieme delle proprie esperienze e questo già le fa del bene. (vedi a questo riguardo la pagina “il caso di A”)


Certamente “dare il nome” ad un vissuto non è sempre facile, perché il nome va trovato nel proprio particolare mondo fenomenico ed è un già in questo un atto creativo! (Vedi “Ascolto di sé” nella sezione “Approfondimenti”)


Insieme si osserva il fenomeno, ma è la persona che lo colloca nella sua esperienza. In questo processo, il terapeuta è come un catalizzatore che favorisce i processi conoscitivi del paziente. (è questo che definisco metodo maieutico)


Come mai è così importante “dare un nome”, definire la propria esperienza?


Ho osservato empiricamente, nella mia esperienza clinica, che nel momento in cui si riesce a collocare nella propria esperienza un dato evento, persino traumatico, questo smette di produrre sofferenza.


Quando un evento, doloroso o traumatico, non è definito, esso non può essere collocato nella vita di una persona, perché è come se non trovasse un posto, cioè un senso, e continua a produrre sofferenza e, nel profondo, un senso di solitudine.


Entrare veramente in rapporto con il proprio vissuto, in tutta la sua ricchezza fenomenologica, in tutte le sue sfumature, senza le deformazioni ed i veli apportati dai vari meccanismi difensivi e dalla mente razionale, è il primo passo per una trasformazione di tutto il proprio modo di essere, che dà pace e saldezza.


Trovo questo approccio alla sofferenza molto più umano, perché ciò che conta è che la persona conosca la propria verità.


Quindi, da un orientamento iniziale della mia professione, che potremo chiamare a carattere psicodinamico, in cui davo molta importanza alle varie teorie dell’inconscio, tutte con la loro immutata parte di verità, sono passato, quasi mio malgrado, ad un approccio che definisco fenomenologico-dinamico in cui integro le conoscenze derivanti dalla psicologia dinamica con l’attenzione al mondo fenomenico del paziente. Un approccio in cui il comprendere è molto più importante dello spiegare.


In seguito ho integrato il mio lavoro psicoterapeutico con l’ipnosi ericksoniana, valido strumento che ben si affianca all’approccio fenomenologico. (vedi la pagina Ipnosi clinica  di questo sito)



In questi anni di pratica della meditazione personale, mi sono potuto rendere conto di come questa disciplina abbia influito sul mio lavoro, sulla mia capacità di essere presente, nel qui e ora, per saper ascoltare e accogliere ogni persona che ho davanti, senza giudicarla, né tantomeno catalogarla nei vari schemi che i vari approcci e le varie teorie psicologiche propongono.